EPISODIO 2: “59,940”
Il tragitto verso il velodromo è un viaggio attraverso una città che non riconosce ma che sembra progettata per la velocità. Le strade sono più larghe di quelle di Bordeaux, l’asfalto più liscio, l’aria stessa sembra più pulita, meno densa, più trasparente. Le auto sono diverse, alcune non le ha mai viste, sembrano più nuove di un’auto nuova e le persone nel furgone non le ha mai viste prima. Ma sa che deve farlo o almeno sa di non avere scelta, come una cavia di un laboratorio di un futuro dove la scienza dello sport ha trovato la sua dimensione ideale.
Il Velodromo di Konya è una cattedrale della velocità che sfida ogni parametro architettonico che conosce. Le curve inclinate a 45.5 gradi sembrano sfidare la gravità stessa, salendo verso il cielo come rampe di lancio per razzi spaziali. Il legno della pista è perfetto, una superficie specchiata che riflette le luci del soffitto in geometrie ipnotiche.
Ma quello che colpisce Tony è il silenzio. A Bordeaux, il pubblico ha creato un muro di suono che lo ha accompagnato per tutti i 60 minuti del tentativo, una colonna sonora umana fatta di grida, applausi, incitamenti che si mescolano al fruscio delle ruote sul legno e al suono ritmico della sua respirazione amplificata dallo sforzo. Qui, l’aria rarefatta sembra assorbire anche i rumori, creando una dimensione acustica ovattata dove ogni suono acquista un significato diverso.
Le tribune sono completamente vuote come se quel velodromo fosse stato costruito fuori dal mondo che conosce lui. Non ci sono le bandiere sventolanti e i cori che ricorda di Bordeaux. Qui la gente che si affanna a centro pista sembra pensare solo di essere protagonista di un esperimento scientifico travestito da prestazione sportiva, a una sfida alle leggi della fisica più che a una semplice gara contro il tempo.
“Mi hanno rapito, devo fare quello che mi dicono e basta. Mi sveglierò” si dice “mi sveglierò a Bordeaux e tutto questo svanirà e…”
“Mr. Rominger, please” dice una voce gentile di una ragazza bionda vestita di blu, poco bianco e un filo di rosso.
Si cambia lentamente nel silenzio dello spogliatoio senza ricordare di esserci entrato, ogni cosa che tocca e indossa è una novità tecnologica che lo trasforma progressivamente da essere umano a macchina ottimizzata per la velocità. La tuta aderisce al corpo come una seconda pelle ma più intelligente, più consapevole delle dinamiche aerodinamiche. Sente la differenza nella resistenza dell’aria anche solo camminando.
Le scarpette si fondono come babbucce con i suoi piedi in una sintesi perfetta di biologia e tecnologia. I copriscarpe integrati eliminano ogni discontinuità, trasformando la parte inferiore delle gambe in superfici aerodinamiche continue. Il casco, quando se lo infila, cambia la percezione dello spazio intorno alla sua testa. Non sente più l’aria muoversi caotica intorno alle orecchie, ma percepisce flussi ordinati, controllati, guidati dalla forma del caschetto lungo traiettorie precise.
Ride.
Si trova in sella alla sua Colnago e immediatamente capisce che tutto è cambiato.
Non è solo una questione di peso o posizione, no, è la sua bici, la riconosce ma anche solo il “clack” della tacchetta del pedale è diverso, estraneo, alieno, più veloce.
Inizia a pedalare piano pensando tra sé di non conoscere neanche una persona lì dentro.
E mentre si stupisce della trasmissione, delle sue pedalate trasferite al legno del velodromo come sciolte in un fluido scivoloso come sapone, capisce di essersi dimenticato di mettere il casco. Toglie la mano dal manubrio, tocca qualcosa di lisco, una superficie perfetta, si guarda negli occhi riflessi nella grande visiera specchiata dall’interno “No, ho anche il casco”.
Ride tra sé e inizia a spingere un po’.
Ogni pedalata, ogni watt che trasmette ai pedali viene tradotto in movimento senza perdite, senza compromessi, senza quell’inefficienza di fondo che ha sempre accettato come parte inevitabile della meccanica, l’onestà meccanica, “il meglio che si può” ricordava sempre Ernesto.
I pneumatici neri rotolano sulla pista come se fossero fatti della stessa sostanza del legno, eliminando ogni vibrazione, ogni spreco di energia che non sia direttamente convertito in velocità. La trasmissione cerata risponde con una fluidità che rasenta il silenzio assoluto, come se l’attrito fosse stato bandito dalle leggi fondamentali della meccanica.
Ma la differenza più profonda è nell’aria stessa. A 1016 metri di altitudine, con una densità ridotta del 10% rispetto a Bordeaux, ogni movimento sembra più facile, più naturale. Non è che la fatica sia diminuita – il suo motore biologico deve sempre erogare gli stessi 468 watt – ma è come se l’universo accettasse di collaborare invece che di opporsi.
Alle 17:00 precise – l’ora magica scelta per Bordeaux, quando la luce del tramonto crea quell’atmosfera sospesa che sembra fatta apposta per i record – Tony si trova sullo starter con la ruota posteriore bloccata, lo sguardo in fondo, sulla curva deserta.
Continua a chiedersi perché sia lì, perché le gambe non gli facciano male, perché sia tutto diverso ma maledettamente già visto e mentre sta per decidere di scendere dalla bici e urlare sente una voce ovattata dal casco… trois, deux, un….
Parte.
Il cronometraggio viene avviato con la precisione svizzera che lo caratterizza da sempre, ma i numeri che iniziano ad apparire sul tabellone sfidano ogni logica che conosce.
Giro 3: 15”8 (56.7 km/h)
Impressionanti, fluido e silenzioso da subito, la velocità è superiore senza che lui stia erogando più potenza. Il suo corpo riconosce perfettamente lo sforzo – gli stessi 468 watt che ha imparato a dosare con precisione chirurgica – ma la risposta in termini di velocità è diversa.
Giro 10: 15”6 (57.4 km/h)
L’equazione della potenza si sta riscrivendo davanti ai suoi occhi in tempo reale. La formula fondamentale che governa la sua prestazione è sempre la stessa:
P × η = (0.5 × ρ × v² × CdA) + (g × m × Crr × v)
Ma ogni variabile è cambiata, migliorata, ottimizzata da trent’anni di progresso tecnologico:
- P = 468W (costante biologica, l’unica cosa rimasta dal 1994)
- η = 0.975 (efficienza della trasmissione moderna vs 0.96 del 1994)
- ρ = 1.085 kg/m³ (densità dell’aria a Konya vs 1.204 di Bordeaux)
- CdA = 0.172 m² (coefficiente aerodinamico ottimizzato vs 0.188 del 1994)
- Crr = 0.0021 (resistenza al rotolamento moderna vs 0.0035 del 1994)
Ogni numero rappresenta un salto temporale di trent’anni, la quantificazione matematica del progresso umano applicato alla velocità pura.
“Dove cazzo sono” pensa Tony mentre una voce gli urla. “Bene, continua piano!”
“Cinquantasette e devo continuare piano?” Tony pedala e stacca il cervello.
A metà tentativo, Tony entra in quella zona psicologica che tutti i grandi atleti conoscono: il momento in cui il corpo smette di essere un nemico da combattere e diventa un alleato perfetto. Ma questa volta c’è qualcosa di diverso. Non è solo il suo organismo che ha raggiunto l’equilibrio perfetto, è tutto il sistema – uomo, macchina, ambiente – che si è sincronizzato in una sinfonia meccanica.
Giro 25: 15″4 (58.1 km/h)
Giro 30: 15”2 (59.2 km/h)
I tempi si stabilizzano su valori che a Bordeaux sarebbero stati impensabili. Il suo corpo ha trovato il ritmo sostenibile, quello che può mantenere per un’ora intera senza cedere all’accumulo di lattato. Ma quel ritmo ora corrisponde a una velocità superiore di quasi 3 km/h rispetto al giorno prima.
La differenza non è solo matematica, è esistenziale. A Bordeaux ha lottato contro ogni componente del sistema – l’aria densa, i pneumatici inefficienti, l’attrito della trasmissione, la resistenza dell’equipaggiamento.
Qui a Konya, ogni elemento cospira a suo favore. L’aria rarefatta offre meno resistenza, i pneumatici moderni rotolano come su una superficie lubrificata, la trasmissione cerata trasforma ogni pedalata in velocità pura senza perdite.
Non è più un uomo che pedala contro il tempo e contro la fisica. È diventato parte di un’equazione perfetta che si sta risolvendo in tempo reale.
Giro 40: 15”1 (59,5 km/h)
Giro 45: 14”9 (60,2 km/h)
“Sto andando a sessanta all’ora, non so dove sono e con chi ma sto andando fisso a sessanta all’ora”.
I calcoli corrono nella sua mente con la precisione di un computer biologico.
Così vicino ai 60, quel numero mitologico che rappresenta la barriera psicologica assoluta, la velocità che nessun essere umano ha mai toccato mantenendola per un’ora intera.
Negli ultimi cinque giri, Rominger capisce che sta vivendo qualcosa che va oltre il record personale o la prestazione sportiva.
Sta dimostrando empiricamente cosa significa il progresso tecnologico quando viene applicato con precisione scientifica alla prestazione umana. Ogni pedalata è una lezione di ingegneria applicata, ogni respiro è una dimostrazione di come l’ambiente possa diventare alleato invece che nemico.
Guarda l’enorme cronometro digitale al centro della gradinata della curva per tre giri di fila senza capacitarsi dei numeri che legge: segna distanze che sfidano ogni precedente esperienza:
Ha già fatto 55 chilometri. “Non finirà, sono una cavia e questo è un fottuto esperimento di quell’italiano, pedalerò qui fino alla morte”. I pensieri gli riempiono gli occhi di lacrime dietro la visiera specchiata quando la campanella suona per indicare l’ultimo giro, il calcolo finale si materializza davanti ai suoi occhi con la precisione implacabile della matematica: 59.940 metri. 59 chilometri e 940 metri. Per 60 metri – sessanta metri – ha mancato la barriera dei 60 chilometri orari mantenuti per un’ora.
Ma quei 60 metri contengono una verità più grande del record stesso.
Contengono la dimostrazione che il suo 55.291 del giorno prima non è stato solo velocità – è stato eroismo contro l’inefficienza, vittoria della volontà umana contro l’aria e gli attriti, il trionfo della determinazione sulle imperfezioni tecnologiche del suo tempo.
Tony rallenta con l’intenzione di non fermarsi. Lo stordiranno per fare analisi, esperimenti, non potrà ribellarsi, non conosce la lingua di quella gente. Rallenta talmente tanto che smette di pedalare e si lascia andare lungo la pista inclinata, il silenzio del velodromo rotto solo dal fruscio delle Princeton sul legno perfetto di Konya.
Nessun applauso, incrocia con lo sguardo un uomo con la tuta blu come quella della ragazza che lo aveva chiamato alla partenza, lo cerca con gli occhi in uno sguardo di vittoria: “sono sessanta metri in fondo, meno di un quarto di velodromo, una curva” si ripete nel casco lucente. L’uomo in blu sfoglia pagine sul tablet, consulta gli appunti facendo cenno di no con il capo, dice qualcosa alla ragazza bionda vestita come lui, lei annuisce lui scuote ancora la testa e lascia gli occhi di Tony a aspettare uno sguardo che non arriverà mai.
Nessun applauso nel velodromo della perfezione, solo la eco ovattata dei rumori dei meccanici già intenti a smontare le bici.
Tony resta seduto alla fine della curva, alla fine di quei sessanta metri mancanti, con le gambe dritte e la schiena piegata come il casco pesasse improvvisamente quintali.
“59,940 sono sessanta all’ora, mancano solo sessanta metri…”
Tony non si da pace, il suo è un trionfo fuori da ogni logica, quasi sessanta chilometri in un ora, nessuno, neppure Boardman nell’era delle Hyperbikes, neanche il campione Filippo Ganna hanno mai neppure immaginato un simile risultato.
Ieri: 55.291 km con:
- CdA = 0.188 m²
- Crr = 0.0035
- η = 96%
- ρ = 1.204 kg/m³ (livello del mare, 20°C)
Oggi: 59.940 km con:
- CdA = 0.172 m² (ruote, skinsuit, casco, crankset = 8,51%)
- Crr = 0.0021
- η = 97.5%
- ρ = 1.085 kg/m³ (1016m, 27°C)
La differenza di 4.649 metri non è frutto della somma di progresso tecnologico, metodo e ingegneria avanzata, è la quantificazione di quanto sia stato straordinario quello che ha fatto nel 1994 con mezzi primitivi.
Ogni chilometro in più a Konya rappresenta un ostacolo che ha superato, a Bordeaux, con la sola forza di volontà.
L’equazione finale che governa la sua prestazione futura si risolve in sessanta metri di frustrazione o in qualche chilometro d’inganno.
Sessanta metri che separano l’umano dal sovrumano, qualche chilometro che distingue il possibile dall’irreale.
“Clincher” biascica guardando la gente vestita di blu che abbandona il centropista “magari coi tubolari…sessanta metri…”
