EPISODIO 5: “Vecchio pelato”
Esce dal velodromo con il sorriso sulle labbra, la gente che gli offre pacche sulle spalle e complimenti in lingue che non comprende, le gambe a pezzi e l’anima più leggera di quanto non sia stata da anni. Bordeaux la sera ha un fascino particolare, con le luci dei bistrot che iniziano a accendersi e l’odore del vino che si mescola all’aria fresca di novembre.
Fuori dal velodromo lo aspetta un signore pelato con occhi gentili e un’aria di chi ha visto molto nella vita, di chi conosce i segreti più profondi dello sport ma anche la sua dimensione più umana.
“Eh,” dice l’uomo con un sorriso che contiene decenni di saggezza, “credo che quando correvo io ci siamo divertiti di più. Quando vedo i corridori al traguardo oggi, non sembrano felici. Dev’essere per lo stress, così dicono. Queste corse, questi traguardi sono molto snervanti, con una posta in gioco molto alta.”
“Dici a me?” si volta Charlie con un gesto della mano sul petto.
L’uomo fa una pausa, osservando Charlie con quello sguardo clinico ma affettuoso che solo i grandi maestri sanno avere. “Nel tuo tempo,” continua, come venisse dal futuro, “avete trasformato lo sport in scienza. È un progresso, non fraintendermi. Ma a volte la scienza, l’ingegneria, dimentica che prima di tutto siamo esseri umani.”
L’uomo mette una mano sulla spalla di Charlie con la confidenza di chi ha il diritto di dare consigli perché ha guadagnato quel diritto sul campo, con risultati e saggezza. “Benvenuto nel mio tempo” dice.
“Qui almeno, quando fallisci, è solo colpa tua. E quando vinci, il merito è solo tuo.”
Charlie annuisce, comprendendo immediatamente il significato profondo di quelle parole. Nel futuro da cui viene, il fallimento è sempre colpa del sistema – dell’equipment sbagliato, della strategia non ottimizzata, dei marginal gain non implementati correttamente, della posizione aerodinamica non perfetta, dei watt non distribuiti secondo l’algoritmo ottimale, della temperatura e dell’umidità.
Nel suo tempo, ogni sconfitta viene analizzata da computer, scomposta in variabili, trasformata in dati per migliorare le prestazioni future. Non esiste più il fallimento semplice, chiaro, umano. Esiste solo l’inefficienza del sistema da correggere.
Nel 1994, il fallimento è umano. È onesto. È, paradossalmente, più facile da accettare perché è vero.
“Chi è lei?” chiede Charlie, anche se dentro di sé sospetta già la risposta.
L’uomo lo fissa negli occhi con quel sorriso particolare che hanno solo coloro che hanno dedicato la vita a capire i segreti della prestazione umana, che hanno visto nascere campioni e che sanno riconoscere il talento anche quando è nascosto sotto strati di sistema e pressione.
“Sono solo qualcuno che crede che il ciclismo dovrebbe essere ancora divertente,” risponde. “Ma da quando mi hanno preso quelli la” fa cenno con gli occhi e la testa verso il cielo “nessuno più ascolta quello che dico” sorride “ogni villaggio ha il suo matto”. Fa una pausa, guardando verso il velodromo dove le luci si stanno spegnendo. “Ho visto molti talenti distrutti dalla ricerca della perfezione. Ho visto corridori che smettevano di sorridere quando vincevano. Ho visto la scienza dello sport trasformare i campioni in robot”.
“Una volta, in un’ora, ho fatto sessanta chilometri su una bicicletta come la tua lo sai? In realtà per sessanta metri, sessanta non li ho fatti sessanta chilometri e per questo nessuno se lo ricorda” Il signore distinto passa una mano sul viso commosso “poi quando mi hanno riportato qui ero troppo vecchio per riprovarci, sessanta metri giovanotto lei corre in pista, una curva sono sessanta metri lì dentro” dice con gli occhi sul velodromo “per questo non se lo ricorda nessuno. Era un posto lontano a più di mille metri d’altezza. Non c’era la gente ad applaudire, non c’era quasi nessuno a dire il vero”.
Forse se avessi usato i guanti chissà, forse quel lubrificante al nitruro di carbonio mi avrebbe regalato quei sessanta metri, li avrei potuti guadagnare quei sessanta metri…forse quei copriscarpe speciali…dicevano tre watt lo sai? E con quei tre watt li facevo sessanta metri in più no?”
Charlie annuisce con compassione, lo guarda negli occhi e non vuole fare altro che piangere, in questo sport nessuno ti regala nulla, niente ti fa guadagnare tempo, secondi o velocità.
“Ma tu, oggi,” continua l’uomo pelato, “hai ricordato a tutti noi perché abbiamo iniziato a correre in bicicletta. Non per i watt, non per l’aerodinamica, non per i marginal gain. Ma per la gioia pura della velocità, per vincere le corse, per battere i record.”
Charlie sente qualcosa sciogliersi come se trent’anni di tensione accumulata stessero finalmente lasciando il suo corpo. “Ho fatto solo 55 chilometri” dice. “Poco più. Nel mio tempo, con la tecnologia moderna, avrei potuto fare meglio.” ma la voce trema come se non fosse convinto delle sue stesse parole, in fondo sapeva che in quei 55 chilometri aveva dato tutto e che nulla avrebbe potuto spingerlo oltre.
L’uomo scuote la testa con una saggezza che va oltre i numeri. “I numeri mentono, Charlie. O meglio, dicono solo una parte della verità. Tu oggi hai percorso 55 km di gioia e fatica.
Nel tuo tempo, quanti chilometri hai percorso libero da tutto?”
Charlie si sente colpito in faccia come un pugile troppo debole per affrontare l’incontro, rivede l’argento di Parigi, la caduta da perdente di Tokyo, sente il sapore delle lacrime e della frustrazione.
“Ecco la differenza tra oggi e il tuo tempo,” dice l’uomo. “perdere fa male ma vincere fa felici. Nel 2025, vincere è un risultato ma perdere fa sentire inadeguati al sistema.”
L’uomo guarda l’orologio, un Rolex d’oro che brilla sotto i lampioni di Bordeaux. “È ora di tornare, Charlie. Ma porta con te quello che hai imparato oggi. Ricordati di quegli uomini che si sono presi cura di te” dice guardandolo più da lontano “Eh perchè sei alto giovanotto, diamine se sei alto” gli dice tra sorpresa e sorriso “La bici blu L’aveva fatta per me sciur Ernesto, era più lunga e io non mi ci trovavo bene, lui ne aveva fatte due perchè voleva che mi sentissi bene su quella bici. Per me erano quella bianca e quella blu ma per lui, per tutti loro, erano notti di lavoro”.
Charlie sente una vertigine, quella stessa sensazione di disorientamento che ha provato al risveglio. La realtà inizia a sciogliersi intorno a lui, i colori del 1994 iniziano a sbiadire, l’odore delle Gauloises si disperde nell’aria.
“Ricorda,” è l’ultima cosa che sente dalla voce dell’uomo pelato, “la tecnologia è un servitore, non un padrone. Tu sei l’attore, tu devi pretendere di essere il protagonista della tua storia e nel nostro sport il metallo, il carbonio, l’acciaio devono essere plasmati da chi vuole per te che quella storia sia emozionante, da chi vuole insieme a te scrivere un finale che sorprenda tutti. I numeri, quelli sono un risultato.
Vedi, tu vai via di qua con cinquantacinque e il sorriso e io, a me mancavano sessanta metri solo sessanta…”
Tony ha quasi paura ad aprire gli occhi, è sveglio da un po’ e non riesce rinunciare al buio delle sue palpebre, era solo una curva, una maledetta curva. Sente le gambe dure la schiena pesante sul materasso sfondato. Come fosse allo start di una gara spalanca gli occhi all’improvviso e riconosce la plafoniera di vetro sabbiato della stanza nel suo hotel di Bordeaux. La radiosveglia segna le 6.30 del 6 novembre 1994, “mi hanno riportato qui” dice ad alta voce come se qualcuno potesse sentirlo, ma qualcosa è cambiato in quella stanza, l’aria è familiare e pesante, dovrebbe essere il giorno della festa ma non c’è nessuno a applaudirlo.
Sul Sud Ouest che ha sul comodino c’è la sua foto in copertina: 55,291 con la scritta Colnago sotto la foto, quella buffa divisa Mapei che vestiva anche nelle crono su strada. Guarda la foto con attenzione ricordando quel body blu scuro che sembrava fatto di velocità e promesse: “Magari con il body a maniche lunghe…”
Dall’altra parte del tempo, Charlie si sveglia da un sonno pesante come avesse viaggiato troppo scomodo per riposare. Apre gli occhi lentamente mettendo a fuoco gli oggetti nella stanza per capire dov’è come quelle volte che viaggi talmente tanto che ci metti un po’ per capire dove sei quando ti svegli.
“Che sogno” si dice a voce alta “c’è roba buona nell’aria qui in Turchia”. Ma mentre parla a se stesso si rende conto che non è nella sua camera di Konya, è nel suo letto, nel suo appartamento di Manchester.
Afferra l’iPhone strappandolo dal cavo di alimentazione, apre Instagram ed è pieno di foto del suo tentativo di Record: “Ganna resiste ma il fenomenale Charlie Tanfield si ferma a soli 60 metri dal record britannico di Dan Bigham” Sotto, la sua foto con un ridicolo body vintage Mapei e un casco Bell nero, il suo nome in grandi caratteri azzurro cielo su un improbabile sfondo giallo la scritta rossa: 55,488 Km.
“Non è Konya, il legno è troppo scuro”, muove la testa di lato per allungare i muscoli del collo, sorride come quel giorno ghiacciato a Minsk in cui lo sconosciuto Charlie, un amatore di vent’anni con una bici tutta nera si mise l’oro al collo sfiorando il record del mondo. “Andavi a piedi, Dan” pensa tra sé ricordando quegli anni di sfide troppo sbagliate per essere vinte: “eppure le abbiamo…” si blocca su una foto mentre scrolla instagram un vecchietto pelato di spalle sta appoggiato alla balaustra proprio sulla linea del traguardo, un signore col gilè blu piantato a bordo pista con le gambe un po’ aperte e una bici bianca tra le mani lo fissa come il laser di un fucile di precisione, un tizio con gli occhiali da sole e abiti di due taglie più abbondanti ha un cronometro in mano accovacciato per terra, appena prima della curva. Gli spalti e il centro pista pieni di gente, gli sembra ancora di sentire gli applausi.
“Sessanta metri”.
Charlie butta il telefono sul letto ridendo; nella sua testa le parole del signore pelato.
“Sessanta metri Dan, una curva, meno di un quarto di pista. Ma la prossima volta ti batto”.
In quel momento lo schermo dell’iPhone si accende.
Whatsapp > Good job mate, 60 mtrs ha! 😉 – Piggy.
Charlie sorride “La prossima volta ti batto”.
La Matematica dell’Umanità
I calcoli presentati in questo racconto sono basati su principi fisici reali e verificabili. L’equazione della potenza P × η = (0.5 × ρ × v² × CdA) + (g × m × Crr × v) non mente mai. I coefficienti di resistenza, le densità dell’aria, le efficienze delle trasmissioni – tutto è accurato e supportato da dati scientifici.
Tony Rominger a Konya nel 2025, con la tecnologia moderna, avrebbe effettivamente, calcolando i marginal gain dichiarati di componenti, ruote, abbigliamento, casco e accessori in uso a British Cycling (escluso il telaio che resta il suo Colnago del 1994) percorso 59,940 km.
La matematica lo conferma attraverso la risoluzione dell’equazione cubica:
Per sessanta metri – sessanta metri soltanto – avrebbe mancato la barriera mitica dei 60 km/h.
Filippo Ganna nel 2022 a Grenchen ha battuto la migliore prestazione umana di quel Chris Boardman che a Tony Rominger rubò il record nel 1996 con 56,792 battendo di quattrocento metri, trent’anni dopo, la prestazione del campione britannico.
I calcoli, le formule, i numeri, dicono che il giovane Tony nel 2025 avrebbe battuto quel record di più di tre chilometri: che sono dodici giri.
Non sessanta metri, ma dodici giri.
La matematica lo conferma ma la realtà ne dubita.
Quel signore pelato continua a ricordarlo: “solo sessanta metri, una curva”.
Ma la vera scoperta di questo esperimento mentale non è nei numeri.
La storia di due campioni separati dal tempo serve a ricordare una verità fondamentale: i marginal gains sono importanti, ma i radical joys sono essenziali.
La scienza dello sport può ottimizzare il corpo, l’ingegneria può migliorare l’attrezzo ma i numeri hanno una scala, un massimo, un limite: l’uomo no. Intorno a lui, alle sue intuizioni, ambizioni, sogni nasce la sorpresa. Intorno alla follia, al non noto al mai fatto prima, al superamento dei limiti e delle convenzioni cresce l’innovazione che permette di saltare in futuri possibili che l’ingegneria non contempla.
E l’intuizione libera che dà forma a un organismo libero uomo macchina pedala sempre più veloce di un corpo perfetto in catene dorate.Charlie Tanfield merita di più.
La fisica lo dimostra. La sua storia lo conferma. Solo quel giorno lo nega.Il suo 53,967 km a Konya non è stata una prestazione inadeguata – è stata una prestazione umana schiacciata dal peso di un sistema che ha dimenticato che il ciclismo, prima di essere scienza, dovrebbe essere arte.
Prima di essere ottimizzazione, dovrebbe essere espressione.
Prima di essere numeri dovrebbe essere performance.
