IL RISVEGLIO NELL’IMPOSSIBILE_ EPISODIO 1 – “1016m”

EPISODIO 1: “1016m”

Apre gli occhi nel buio della camera d’hotel e la prima cosa che registra non è la luce o il suono, ma l’aria. L’aria ha un sapore diverso, più sottile, come se qualcuno avesse sottratto peso alle molecole che respira. Il sapore metallico della fatica è ancora sulla lingua, quel retrogusto amaro di lattato e ambizione che conosce solo chi ha spinto il corpo oltre i suoi limiti naturali, oltre quella soglia dove l’ossigeno diventa prezioso come l’oro e ogni battito cardiaco è un negoziato con la morte.

È il 6 novembre 1994. O almeno così crede.

La sveglia digitale dell’hotel segna le 6:30 del mattino, gli stessi numeri rossi che ha fissato per ore dopo il suo tentativo, quando l’adrenalina non lo lasciava dormire e i 55.291 chilometri percorsi gli martellavano nella testa come un mantra ossessivo. Ma qualcosa stona in quella geometria familiare della camera d’hotel. La luce che filtra dalle persiane non ha il grigio umido di Bordeaux a novembre, non porta con sé l’odore di platani spogli e asfalto bagnato che ha respirato per giorni prima del tentativo.

Si alza dal letto con i muscoli ancora duri dalla follia della sera precedente – le cosce che bruciano ancora per l’acido lattico accumulato, i polpacci contratti come corde di violino troppo tese, le mani ancora arricciate nella forma del manubrio della Colnago. Ogni fibra del suo corpo porta ancora il ricordo di quell’ora di sofferenza perfetta, matematico equilibrio tra potenza e resistenze che ha trasformato il suo motore biologico in una macchina di precisione: svizzera.
Si avvicina alla finestra trascinando i piedi nudi sulla moquette ruvida dell’hotel e quello che vede dall’altra parte del vetro lo paralizza. Non ci sono le strade acciottolate di Bordeaux che conosce a memoria, non ci sono i platani spogli di novembre con i loro rami che sembrano vene scure contro il cielo grigio. Davanti a lui si estende un paesaggio che sembra uscito da un sogno febbrile: una città moderna circondata da colline aride che si perdono all’orizzonte, sotto un cielo di un azzurro così intenso da sembrare disegnato.

In lontananza, su un cartello che brilla sotto un sole che non dovrebbe esistere a novembre, riesce a leggere caratteri che sembrano muoversi come fossero vivi davanti ai suoi occhi stanchi: “Konya’ya Hoş Geldiniz – Rakım: 1016 m”.  I numeri lo colpiscono, del cartello non capisce nulla ma la m dopo i numeri per un ciclista è un linguaggio universale, come una rivelazione fisica. Millesedici metri. L’altitudine che ogni ciclista conosce a memoria perché è scritta nei manuali di fisiologia come la soglia dove l’aria inizia a diventare complice invece che nemica.
“Ecco perché mi sembra di respirare strano”.
La sua Colnago è lì, appoggiata al muro della camera con la stessa noncuranza studiata con cui l’ha lasciata la sera prima, anche se non ricorda di averlo fatto, il tempo sembra aver perso significato in quella dimensione parallela. Il telaio in acciaio Columbus Oval CX brilla della stessa luce bianca di sempre, quei tubi sottili che ha imparato a conoscere millimetro per millimetro, ogni saldatura, ogni curva progettata per tagliare l’aria con l’efficienza di una lama. Almeno così diceva Ernesto.

Ma qualcosa non gli torna come quando ti svegli che sei andato a letto troppo sbronzo per ricordarti anche di esser stato rapito dagli alieni, forse è successo: “La precisione chirurgica di un’operazione aliena” sussurra tra sé.

Al posto delle ruote lenticolari FIR che ha usato il giorno prima, quelle ruote pesanti e oneste che fischiano nell’aria come proiettili, ci sono due dischi perfetti di un nero opaco che assorbe la luce invece di rifletterla. Il logo Princeton è scritto in bianco e rosso con una eleganza tipografica che non ha mai visto prima, lettere che sembrano progettate dal vento stesso per non disturbare il flusso dell’aria. Le ruote emanano un’autorità tecnica che si percepisce anche solo guardandole, come se contenessero segreti aerodinamici che la tecnologia che lui conosce può solo immaginare.

Tony si strofina gli occhi, si avvicina alla bici e guarda meglio: la trasmissione è stata sostituita con componenti che sembrano usciti dal futuro prossimo di un ingegnere pazzo. La catena brilla di un nero opaco e profondo, trattata con una sostanza che sa di chimica avanzata e ricerca industriale. Quando la tocca, scivola tra le dita con una fluidità oleosa che non ha niente a che vedere con i lubrificanti meccanici che conosce. È come se l’attrito fosse stato bandito dalle leggi della fisica, come se qualcuno avesse riscritto le equazioni fondamentali della meccanica con materiali alieni.
I cuscinetti del movimento centrale sono diversi, più silenziosi, alza la ruota posteriore e fa girare la pedivella: girano con una precisione che rasenta il silenzio assoluto. Niente più del caratteristico fruscio metallico dei cuscinetti in acciaio che ha sempre associato alla sua bicicletta.
Questi nuovi componenti sembrano galleggiare in una dimensione dove l’attrito è solo una teoria filosofica.
Si volta verso il letto per controllare di essere solo.
Sul comodino, accanto al bicchiere d’acqua che non ricorda di aver riempito, c’è un tablet nero “…ma cosa diavolo è quest…” lo schermo si illumina al tocco delle sue dita ancora incallite dal manubrio, mostrando schermate piene di dati tecnici, grafici, tabelle, numeri che lo investono come una rivelazione digitale.

I numeri non mentono mai. Rominger lo ha sempre saputo, fin da quando ha iniziato a gareggiare e ha capito che il ciclismo è sostanzialmente matematica applicata alla sofferenza umana. Ogni pedalata è un’equazione, ogni giro è un calcolo, ogni tentativo di record è una sfida alle leggi fondamentali della fisica.

Sul tablet, i dati si susseguono con la precisione implacabile di una diagnosi medica:

Densità dell’aria – Bordeaux (0m s.l.m., 20°C): 1.204 kg/m³
Densità dell’aria – Konya (1016m s.l.m., 27°C): 1.085 kg/m³
Riduzione percentuale: -9.9%

Quei numeri lo colpiscono come una rivelazione fisica.
Tony non ha voluto tentare il record dell’ora solo da ciclista: ha sempre avuto una relazione viscerale con la matematica del ciclismo, sa che la resistenza aerodinamica segue la formula implacabile F = 0.5 × ρ × v² × CdA, dove ogni simbolo rappresenta una battaglia contro le leggi fondamentali dell’universo.
ρ, per gli amici ro,  è il nemico silenzioso, la densità dell’aria, quella che non si vede ma che assorbe la maggior parte della potenza a quelle velocità. Una riduzione del 10% nella densità dell’aria significa una riduzione diretta del 10% nella resistenza aerodinamica.
È lineare, semplice “avevo letto sull’enciclopedia che pedalando su Marte farei un centesimo della fatica oppure con la mia potenza andrei cento volte più veloce”… “cento volte” si ripete. E a velocità superiori ai 50 km/h, dove l’aria assorbe il 90% della potenza erogata dal motore umano, quel 10% non è solo un miglioramento – è una rivoluzione.

Ma il tablet mostra molto di più. Tabelle comparative che sembrano uscite da un laboratorio di ricerca avanzata; Tony inizia a sfogliarlo come un libro infastidito per le scritte in inglese ma incuriosito come un bambino:

COEFFICIENTE DI RESISTENZA AL ROTOLAMENTO (Crr):

  • Vittoria Pista CL (1994): 0.0035
  • Continental GP5000TT Clincher (2025): 0.0021
  • Miglioramento percentuale: -40%

“Clincher? su una pista in legno? Di che diavolo di pazzo è questo coso?”

EFFICIENZA DELLA TRASMISSIONE (η):

  • Sistema tradizionale (1994): 96.0% (perdita: 4%)
  • Sistema Ceramick cerato + ceramica (2025): 97.5% (perdita: 2.5%)

COEFFICIENTE DI RESISTENZA AERODINAMICA (CdA):

  • Setup Bordeaux (1994): 0.188 m²
  • Setup Konya (2025): 0.172 m²
  • Riduzione: -0.016 m²

Ogni numero racconta una storia di progresso tecnologico, di ricerca infinitesimale sui margini, di quella filosofia dei marginal gains che nel 1994 è ancora fantascienza. Rominger fissa i dati e capisce che sta guardando la quantificazione di trent’anni di evoluzione umana, la traduzione in matematica pura del progresso della specie.

Tony pensa ai numeri e viene investito da un lampo: “Cosa cazzo vuol dire 2025?”.

Lascia cadere il tablet e torna alla finestra “Konya’ya Hoş Geldiniz – Rakım: 1016 m” si ripete “Millesedici” non c’entra con l’altitudine e…1994, “sì siamo nel 1994, sono nel 1994”.
Cerca un’idea migliore di urlare e decide di vestirsi e uscire. Aveva visto un film americano qualche settimana prima, un film sulla festa di una marmotta e persone imprigionate nel tempo. Il tempo, quello che ha voluto sfidare, si sta prendendo la sua crudele vendetta. Sull’attaccapanni pende una tuta che sembra uscita dai laboratori segreti della NASA. Il tessuto non è la semplice Lycra che conosce, quella seconda pelle sintetica che negli anni ’90 rappresenta il massimo dell’innovazione nell’abbigliamento sportivo. Questa nuova tuta ha una texture particolare, quasi organica, come se ogni fibra fosse stata progettata a livello molecolare per ingannare l’aria.

Il marchio Alè è appena visibile sul petto, stampato con una tecnologia che fa sembrare il logo parte integrante del tessuto, ma sotto, in caratteri microscopici che richiedono di avvicinare gli occhi, c’è scritto “VorteX Engineering – Wind Tunnel Optimized”. La tuta ha cuciture piatte, sembra saldata da un fabbro di astronavi, posizionate in punti strani, asimmetrici, che seguono linee che non corrispondono alla normale anatomia umana ma a qualcosa di più complesso – i flussi d’aria intorno al corpo in posizione aerodinamica.

Quando la tocca, il tessuto reagisce al calore della sua pelle con una fluidità quasi liquida. Non è più solo un indumento, è una superficie progettata per manipolare l’aria, per trasformare il corpo in un proiettile più efficiente. Sul polso sinistro, quasi nascosta nelle pieghe, c’è una piccola etichetta che riporta dati tecnici che sembrano codici segreti: “Drag reduction: -8.7W @ 55km/h – Trip strips integrated – Boundary layer optimized”.
Il suo casco non c’è più, quel caschetto che all’epoca rappresentava l’avanguardia dell’aerodinamica ma che ora, comparato a questo nuovo oggetto, sembra un elmetto della Prima Guerra Mondiale. Questo è una scultura del vento, “sembra un uovo” sorride, ogni curva calcolata per guidare l’aria lungo traiettorie precise. La superficie è liscia, la visiera grande e specchiata.
Anche le scarpe sono diverse. Al posto delle semplici scarpette da strada che ha sempre usato, ci sono calzari neri a forma di piede con una texture che gli ricorda un tessuto. Sembrano fusi con le tacchette, eliminando ogni discontinuità, ogni spigolo che possa disturbare il flusso d’aria. I copriscarpe sono integrati, non più accessori separati ma parte di un sistema unico progettato per eliminare ogni turbolenza intorno ai piedi.
Il colpo alla porta gli rimbalza nello stomaco: “Tony è tardi, dobbiamo andare” dice la voce fuori dalla porta con uno spiccato accento britannico. Non la riconosce ma come se avesse letto sul tablet le istruzioni di cosa fare infila la felpa della tuta e le sneakers, mette in borsa tuta, casco e scarpe e afferra la maniglia della porta.
Le gambe, le gambe non gli fanno male, si volta ancora verso la finestra: “Konya’ya Hoş Geldiniz – Rakım: 1016 m”.

… continua