IL RISVEGLIO NELL’IMPOSSIBILE_ EPISODIO 3 – “Sciur Ernesto”

EPISODIO 3: “Sciur Ernesto”


Charlie apre gli occhi in una camera d’hotel che puzza di sigarette Gauloises e di sudore. L’odore è così intenso, così caratteristico degli anni ’90, che gli provoca una nostalgia istantanea per un’epoca che non ha mai vissuto.
Sul comodino, un bicchiere di Bordeaux lasciato lì da qualcuno la sera prima lo tenta come una sirena alcoolica. Il vino ha quel colore rubino profondo che solo i grandi vini francesi sanno raggiungere, e l’aroma che si sprigiona dal bicchiere porta con sé storie di vigneti centenari e tradizioni familiari tramandate di generazione in generazione. “Bevi e dimentica”, sembra sussurrare il liquido.
“Ma dove cazzo sono?”
Sul comodino c’è una copia del “Sud Ouest”. 5 novembre 1994, Bordeaux.
La città del vino e dei record impossibili.
Si alza dal letto ignorando il richiamo ipnotico del Bordeaux e vede la sua HOPE appoggiata al muro con la stessa noncuranza studiata con cui ha visto mille volte la sua bicicletta negli hotel di tutto il mondo. Ma questa HOPE è diversa. Al posto delle ruote carbonio ultramoderne che conosce, ci sono le FIR lenticolari con pacchiane scritte gialle – ruote pesanti, oneste, con quella superficie lucida e bombata che riflette la luce in modo imperfetto ma sincero.
La trasmissione è primitiva, la catena lubrificata con oli che profumano di meccanica tradizionale, di officine dove i meccanici lavorano ancora con le mani più che con i computer. Non ci sono misuratori di potenza, non ci sono computer che analizzano ogni pedalata, non ci sono algoritmi che trasformano lo sforzo in dati.
Sull’attaccapanni pende una tuta in Lycra semplice – quella texture liscia e minimale che negli anni ’90 rappresenta il massimo dell’innovazione nell’abbigliamento sportivo – e un casco Bell che sembra un caschetto da cantiere accoppiato con un siluro di un sommergibile. Ma c’è qualcosa di liberatorio in quella semplicità, qualcosa che gli ricorda perché ha iniziato a correre in bicicletta da bambino.
“Qui non ci sono aspettative maniacali, non c’è British Cycling che analizza ogni tuo respiro, non ci sono metriche di performance che trasformano ogni battito cardiaco in un giudizio morale”.
La voce sembra uscire dalla radiosveglia sul comodino, Charlie la tocca ma non fa altro, nessun segnale, gira la manopola delle stazioni ma non trova altro che silenzio.
“Che sogno strano…”
Charlie ha sempre avuto nel sangue qualcosa di più forte del vino, qualcosa che va oltre la fuga dalla pressione: la curiosità pura della velocità. Non la velocità come numero da ottimizzare, ma la velocità come esperienza esistenziale, come dialogo diretto con le leggi fondamentali della fisica. È un underdog dai tempi del KGF, delle sfide contro quel British Cycling di cui ora è la bandiera, di quelle notti a Derby con Dan, Jacob, Jonny, suo fratello Harry e a volte quel pazzo americano coi baffi.
Da lì è passato tanto, ha sfiorato un oro olimpico. La sfida non gli è mai pesata.
Guarda i numeri digitali della radiosveglia, apre il giornale e legge che questa sera, alle 17, Tony Rominger tenterà di battere il record dell’ora al velodromo di Bordeaux.
È sveglio e un goccio di vino non potrà certo ammazzarlo. “Salut” dice sorridendo a se stesso nello specchio mentre percepisce sulle dita il tintinnio del bicchiere contro il vetro.
“È tutto vero cazzo, è tutto vero”.

Al velodromo di Bordeaux, Charlie trova Michele Ferrari che controlla i tempi con un cronometro meccanico Omega, uno di quei gioielli dell’orologeria svizzera che misurano il tempo con la precisione degli orologi atomici ma mantengono quella dimensione umana, quella tattilità che i cronometri digitali non hanno mai.
Accanto al muretto c’è una Colnago, identica a quella che Rominger userà per il suo record. Il telaio in acciaio Columbus brilla sotto le luci del velodromo con quel lustro particolare dei metalli nobili, e ogni saldatura racconta la storia di artigiani che costruiscono biciclette con le mani e con l’esperienza più che con i computer.

“Dottore…” dice Charlie avvicinandosi a Ferrari con quella curiosità tipica di chi si trova catapultato in un’epoca che conosce solo dai libri di storia.
“Charlie non abbiamo tanto tempo vai sui rulli”
“Io?”
Ferrari si guarda intorno “E chi? Tony Rominger?” ride tra sé. “Dai ragazzo sali su quella bicicletta e scaldati” dice indicando con un gesto del capo la Colnago bianca.
“Con quella lì?” dice guardando la Colnago.
“Ragazzo con quella, con un’altra, scegli tu a me non interessa, basta che mi ascolti e segui i tempi.”
Charlie annuisce con la testa, quella bicicletta così esile sottile nella sua testa non può volare a sessanta all’ora ma non è mai salito su una bici in acciaio progettata da Ernesto Colnago in persona, non da uno staff non da una compagnia di engineering.
“Che bella” sussurra.
Ferrari alza lo sguardo dal cronometro e sorride con quello sguardo che ha visto nascere e morire mille campioni, che ha assistito a vittorie impossibili e sconfitte inaspettate, che conosce i segreti più profondi della performance umana applicata al ciclismo. “In questo sport, Charlie,” dice con quella cadenza italiana che trasforma ogni frase in una lezione di filosofia applicata, “dare tutto è l’unica strategia che ha senso. Tutto il resto è compromesso, e i compromessi non battono i record.”

Charlie annuisce serio, si avvicina alla Colnago e la tocca con la stessa reverenza con cui un violinista tocca uno Stradivari. Il telaio in acciaio ha un peso e una solidità che le moderne biciclette in carbonio non possiedono più. Non è leggero come i telai che conosce, ma ha una sincerità strutturale, una limpidezza meccanica che si percepisce anche solo appoggiandoci le mani.
Lui si fida. Non sa dove né quando si sveglierà ma si fida. 

Charlie inforca la Colnago e qualcosa di magico accade, qualcosa che va oltre la meccanica e la tecnologia. Senza pressione, senza aspettative maniacali, senza la matematica spietata delle metriche di performance e i numeri della galleria del vento che trasformano ogni suo gesto in un numero da ottimizzare, il suo corpo si scioglie in una fluidità che non prova da anni.
Semplicemente pedala.
È come se fosse tornato bambino, quando pedalava con suo fratello per il puro piacere della velocità e non per soddisfare algoritmi di performance o aspettative esterne.
La bicicletta risponde in modo diverso, più diretto, meno mediato dalla tecnologia. Ogni input viene tradotto in movimento senza passare attraverso filtri elettronici o analisi computerizzate.I primi giri di riscaldamento sono una rivelazione esistenziale. La pista in legno di Bordeaux ha una texture leggermente diversa da quelle che conosce. Qui il legno ha ancora imperfezioni naturali, piccole variazioni che richiedono all’atleta di adattarsi continuamente, di rimanere presente e attento a ogni curva.
Non ci sono schermi digitali che mostrano potenza istantanea, velocità media, cadenza ottimale. Ci sono solo il cronometro meccanico di Ferrari, la sensazione dell’aria sulla pelle, il suono ritmico delle ruote sul legno, il battito cardiaco che aumenta progressivamente mentre il corpo si prepara allo sforzo.
C’è un tizio bassino con la riga di lato e un maglioncino blu in velodromo, è stato in tribuna mentre Charlie si scaldava in pista, adesso è lì a chiacchierare con il meccanico che armeggia sulla bici di scorta: “C’è l’altro telaio in magazzino? quello lungo?”
“Quello blu?” risponde il meccanico.
“Blu, bianco che vuoi che ne sappia io? Per me son tutti d’acciaio e non li farei nemmeno verniciare”
“Va a vedere in magazzino se c’è quello blu – urla il meccanico a un  ragazzo che sta per scendere le scale con due ruote da gommare – lo vuole il sciur Ernesto”
“È mica per me eh. Eh il ragazzotto, quel lì che sta girando, gli serve più lungo, non ci sta mica bene lì su” dice il signore col gilè di lana blu scollato a V “gli serve più lungo che un’ora è lunga”.
Il ragazzo torna con la bici blu su una spalla, le ruote nell’altra prese tra le dita e i tubolari in bocca. “Eh, questa sì, questa” mentre il ragazzo la appoggia vicino al cavalletto e il meccanico si affretta a controllare rapporti e meccanica.
Charlie guarda la scena come fosse in un’altra dimensione, sorride tra sé “in realtà sono in un’altra dimensione” con la testa inclinata da un lato come tanti pistard guardando la bici blu, rendendosi conto di non notare alcuna differenza con quella bianca.
Sente il signore col gilè dire “Tieni la catena più molle che scorre meglio”, non lo capisce ma dagli sguardi sente che si stanno prendendo cura di lui, un’occhiata per misurarlo, un’altra per metterlo a suo agio: “l’è alt, l’è mia il Tony eh!” mentre il meccanico armeggia con le protesi portando le viti a finecorsa.
“Ecco, così va bene. Ragazzo vieni a provare!” dice l’Ernesto. Charlie non capisce la lingua ma trova il suo metroenovanta già in piedi che cammina verso la bici appoggiata alla balaustra.
“Provala”
Charlie reagisce ai suoni non alle parole, ma gli viene spontaneo salire sulla bici e cominciare a pedalare sui rulli con Ernesto a braccia incrociate che lo guarda da un paio di metri di distanza piantato sulle gambe larghe come dovesse fronteggiare l’attacco di una squadra di rugby.
“Adess l’è bel” dice mentre Charlie spinge giù la schiena rendendosi conto di respirare bene, di stare bene, di non sentire la pressione della sella, abbassa ancora il viso tra le braccia e si sente bene, si sente accolto da quell’ammasso rumoroso di ferro e viti tirate a forza.
Chiude gli occhi e aumenta cadenza, la testa bassa, aumenta, aumenta, aumenta, il sudore inizia a scendere dalla fronte, la prima goccia tintinna schizzando sul rullo coperta dal chiacchiericcio del pubblico che comincia a riempire le tribune.

… continua